L’uomo è caratterizzato dalla coscienza, ossia la possibilità di esistere, vivere e riflettere sulle sue esperienze di vita, sui momenti interiori, pensieri, sogni ed emozioni che attraversano la quotidianità. La consapevolezza è una risorsa preziosa che ci permette di dare senso alle nostre esperienze e di riconoscerne l’unicità. Vedere dentro di noi significa gioire delle proprie virtù, ma anche patire per i propri limiti e incoerenze. Nostra responsabilità è accettare queste diverse parti di noi, comprenderle e lavorare per ridurne le divergenze estreme. Dobbiamo imparare ad ascoltare questa bussola interiore e fidarci delle sensazioni che ne derivano: questo non è garanzia di felicità, ma certamente di pace interiore e di conoscenza intima di se stessi. Sta a noi riconoscere i valori verso i quali ci guida, valori profondi e intimi che ci permettono di essere liberi nella vita e di sentirci responsabili di noi stessi.
Ognuno ha il suo punto di vista, le sue sensazioni, interpreta e vive la realtà con i suoi parametri. La realtà non viene riconosciuta da tutti nello stesso modo, spesso la percezione che noi ne abbiamo è più importante della realtà stessa nel generare le nostre risposte. Non è facile uscire dal nostro egocentrismo, per aprirci ad ascoltare il punto di vista altrui. Ecco quindi che per la reazione dell’individuo ciò che conta è la percezione della realtà più che la realtà stessa.
L’autostima è il valore che attribuiamo a noi stessi. Sarebbe molto importante che rispecchiasse fedelmente chi siamo, con i nostri pregi e difetti. Spesso però questa fotografia è sfocata e la nostra autostima non corrisponde a ciò che siamo o per eccesso o per difetto. L’autostima è legata alla nostra storia, alle persone che ci hanno cresciuto, ai partner che abbiamo amato, agli amici che abbiamo frequentato, agli insegnanti che abbiamo incontrato, insomma alle esperienze che abbiamo fatto. Il confronto con gli altri è utile per capire chi siamo e quali doti e difetti abbiamo. L’autostima è l’ago della bilancia del benessere interiore. Infatti senza di essa, molte cose diventano estremamente impegnative o inaccessibili. L’autostima ci dà il coraggio di reggere il giudizio, il conflitto e la capacità di proteggerci da cosa potrebbe farci troppo male sia fisicamente che affettivamente. Ci permette di rispettare i nostri bisogni e di dare spazio a ciò che ci fa star bene.
E’ importante riuscire a fidarsi di noi stessi, di ciò che percepiamo e pensiamo. Ed è anche necessario lasciare agli altri uno spazio di libertà, senza volerli sostituire o sommergere di consigli. Alla nascita, la fiducia nelle proprie sensazioni è massima, ma con il tempo bisogna venire a patto con le proprie sensazioni. Lungo la crescita si rischia di perdere autonomia di giudizio perché non si viene educati e preparati ad avere fiducia in se stessi, nella propria intuizione, nei propri pensieri, nella capacità di distinguere tra ciò che si vuole da un’altra persona o dalla vita, e ciò che invece non sembra corrispondere ai propri bisogni. E come recuperare allora l’autonomia di giudizio? È importante recuperare i nostri pensieri senza lasciarsi imbrigliare dal “così fan tutti”, andare oltre il timore del giudizio e superare la paura di essere soli e controcorrente.
Ogni persona nel suo percorso di vita si confronta con le ferite derivate dalla crescita: relazioni infantili con adulti freddi e assenti o con genitori iperprotettivi e ansiosi, l’aver vissuto un lutto precoce o l’aver subito traumi di varia natura. Le cause del dolore nella crescita di un essere umano sono tante, forse inevitabili.
Oltre al rapporto con la famiglia, possono essere tante le occasioni che generano dolore alla nostra parte più intima e fragile: insuccessi scolastici che umiliano, relazioni difficili con i coetanei, fallimenti lavorativi, rapporti difficili con il partner, malattie invalidanti, separazioni significative e dolorose.
Per alcuni le ferite si traducono in sofferenze relazionali, dalla fatica a creare legami affettivi profondi e duraturi all’esperienza della dipendenza e dell’insicurezza. Ferite a lungo ignorate o trascurate, possono produrre sintomi che costringono la persona a guardare dentro di sé. Il sintomo rappresenta infatti una comunicazione dell’organismo, che si esprime attraverso la sofferenza di chi lo ospita. Qualunque sia il modo in cui si presenta (un attacco di panico, un’ossessione, un attacco bulimico, una difficoltà sessuale, una fobia, e così via) il sintomo si fa portavoce di un malessere che richiama l’attenzione verso la sua esistenza. Pur essendo spesso causa di profondo disagio, di svilimento e di perdita di fiducia in se stessi, il sintomo rappresenta anche un’opportunità per dare una svolta alla propria esistenza, dando accoglienza e ascolto alle lacerazioni e alle emozioni che lo accompagnano.
Aprirsi e non chiudersi è la grande sfida: riconoscere ed accogliere il proprio disagio e avere il coraggio di chiedere aiuto, se necessario, con la consapevolezza che non siamo né strani né gli unici a soffrire, ma che stiamo semplicemente contattando la nostra umana fragilità.
Subire una perdita per allontanamento, distacco o morte di una persona a cui siamo affettivamente legati, è una delle esperienze più drammatiche dell’esistenza umana. Una perdita significativa è in grado di far scuotere le fondamenta della propria esistenza, di aprire una voragine sotto i propri piedi.
Per fare i conti con la separazione è necessario un doloroso e impegnativo “lavoro mentale”: il lutto.
Ogni persona vive un’esperienza unica e personale di lutto. La persona può sentirsi in balìa di emozioni intensissime e a volte contraddittorie, oppure sentirsi congelata, completamente paralizzata. Può cadere nel caos emozionale, intellettivo e comportamentale, e avere la sensazione di perdere la propria identità o di impazzire.
Il lutto è un’elaborazione interiore lenta e graduale, un processo essenziale per affrontare il dolore della perdita e ritrovare gradualmente la voglia di vivere.
Appena ricevuta la notizia della morte di una persona cara, nel momento in cui si subisce un abbandono sentimentale o si viene informati che la piccola vita che si porta in grembo ha interrotto la sua esistenza, una sensazione di confusione e stordimento cala come un manto su mente e cuore. Ci si sente impietriti, increduli, come se si stesse vivendo un brutto incubo.
Quando si matura la consapevolezza che quella perdita o quell’abbandono sono irreversibili, sono per sempre, la disperazione prende forma nella vita della persona. Compaiono sentimenti di intenso dolore, di inutilità, di apatia, paura, sensi di colpa e autorimproveri, senso di abbandono, solitudine. Ci possono essere anche momenti di rabbia, verso tutto ciò che si ritiene responsabile della perdita.
Il lutto può essere subito o può essere affrontato, può essere elaborato o può rimanere congelato, togliendo l’energia vitale necessaria per riprendere il proprio cammino di vita.
Non sarà facile, ma rimanendo a contatto con i propri sentimenti, vivendoli ed esprimendoli, si tutela la propria salute mentale. Quindi il lutto può essere affrontato e superato dando voce e forma alle proprie emozioni. L’unica maniera di far fronte alla sofferenza è soffrire. L’unico modo di gestire il dolore è attraversarlo.
Arriverà il momento in cui ci accorgeremo di godere nuovamente della vita, senza nulla togliere alla persona che abbiamo perso. Occorre arrivare all’intima convinzione che abbiamo diritto ad un’esistenza serena e a delle relazioni soddisfacenti, ricominciando a prendere contatto con la vita, uscendo dal guscio in cui ci si era rifugiati, per proiettarsi all’esterno facendo progetti per il futuro e ritrovando di nuovo piacere negli scambi sociali.
L’ansia è uno stato emotivo caratterizzato da una sensazione di allarme e paura che insorge in previsione di una minaccia, reale o presunta, e che si caratterizza per sentimenti di disforia e sintomi fisici di tensione. Mobilissima e camaleontica oscilla nei suoi innumerevoli modi di presentarsi nel paesaggio mentale della psiche umana, da un ansia “normale”, funzionale alla crescita e al benessere dell’individuo, a una forma disfunzionale, fonte di disagio e sofferenza. È funzionale quando l’individuo è in grado di esercitare un controllo su di essa, conservando un buon esame della realtà e la capacità di mantenere una posizione attiva, cercando soluzioni funzionali con cui far fronte alle minacce che causano lo stato ansioso. Assume caratteristiche disfunzionali quando è accompagnata da vissuti d’impotenza, perdita del potere personale e passività nella gestione delle proprie emozioni. Da risorsa, potenzialità, si trasforma in un ostacolo che in varie forme può limitare il dispiegarsi naturale dell’esperienza, privando l’individuo della propria libertà.
L’ansia può radicarsi nell’esperienza umana assumendo diversi volti, in base alla forza e alla lunghezza del suo decorso. C’è una forma d’ansia che si radica nell’esperienza umana divenendo una parte ingombrante e logorante del vivere quotidiano, e c’è una forma d’ansia che sia abbatte sul fluire della vita umana come con un ciclone che sconvolge e devasta, come nel caso dell’attacco di panico. Non si esce indenni da una simile tempesta: la persona reduce da una crisi acuta, conserva il timore che la catastrofe possa nuovamente incombere, senza poter far nulla per prevederla e fermarla. Viene da sé che per evitare situazioni che si pensa possano provocarla, significa essere condizionati da qualche forza, non sentirsi liberi.
L’ansia, nelle molteplici forme in cui si può manifestare, è portatrice di un messaggio, sebbene esso non appaia in tutta evidenza e chiarezza. E’ necessario fermarsi a riflettere sul messaggio che questo sintomo sottende, per poterlo inserire all’interno di una cornice di senso: esso, infatti, può dirci molto su chi siamo e perché soffriamo.
L’ansia smaschera l’illusione di poter gestire la propria vita, le relazioni, il lavoro, solo con la ragione e la logica, imbrigliando il mondo emozionale. Dietro il sintomo geme la parte autentica di noi che chiede spazio.
La sfida è quindi quella di entrare profondamente dentro di sé per ascoltare le proprie ferite ed accettare la propria umana fragilità, abbandonando un sistema ipercontrollato e rigido, per costruire la propria storia partendo da sé, dalle proprie emozioni e dalla propria creatività.
Ci sono momenti nella vita in cui, in seguito ad un dolore molto intenso (una perdita, una malattia) o a un fallimento (lavorativo o affettivo), il nostro equilibrio interiore vacilla, facendoci precipitare nel senso di vuoto, nell’apatia, nell’incapacità di reagire, come se fossimo risucchiati nel vortice di una forza oscura.
Sono momenti carichi di dolore e sofferenza, ma che sono parte integrante della natura umana e di cui facciamo inevitabilmente esperienza nel corso della nostra vita, contraddistinta dalle sue gioie e dalle sue fatiche.
Ben diverso quando la mancanza di vitalità ed energia, l’indifferenza, l’assenza di desideri, i pensieri negativi e la sfiducia fanno breccia nell’esistenza umana senza alcuna causa apparente e si protraggono per mesi, per anni. Superati i margini di una normale tristezza, entriamo nel terreno insidioso della depressione, un disturbo dell’umore che sconvolge la vita umana, avvolgendola di una fitta nebbia che rende incolore e informe ogni cosa.
L’assenza di emozioni positive, la scarsa voglia di vivere, la perdita di ogni motivazione, portano a rimuginare pensieri in modo ossessivo, a vedere il bicchiere sempre mezzo vuoto, a un’inconsapevole distruzione di ogni fonte di vitalità e dei motivi per i quali si potrebbe essere felici.
Vivere con la depressione significa avere una compagna fedele che si accomoda dentro nel nostro animo e che, come un parassita, si appropria sempre di più della nostra esistenza del nostro spazio interno. A macchia d’olio si espande, ricopre, offusca e paralizza.
Nella società dell’efficiente, che tende a negare o a cancellare con ogni sorta di rimedio ogni forma di dolore e sofferenza, riconoscere e dare valore alle proprie zone buie diviene un compito salvifico importantissimo e coraggioso.
Come quando un grosso meteorite che cade sulla terra lascia un buco enorme, provocando una frattura che dalla superficie si irradia fino a investire il nucleo profondo, così il trauma colpisce la nostra umanità, incide la nostra anima lasciando solchi che minano la nostra integrità.
Quando si parla di trauma psicologico si fa riferimento agli effetti sulla mente e sul comportamento prodotti da un evento fisico, psicologico o sociale altamente stressante.
Un disastro naturale (terremoti, alluvioni), guerre, il maltrattamento (fisico, sessuale, psicologico), un grave incidente, l’essere stati coinvolti in una scena violenta, ma anche un lutto infantile, un’ospedalizzazione vissuta in solitudine da bambini, una separazione precoce e duratura dai genitori … sono solo alcuni degli eventi traumatici a cui l’essere umano può andare incontro. Sono eventi nocivi che vìolano i nostri bisogni di sicurezza, facendo saltare le condizioni di base che ci fanno stare bene.
Un evento stressante diventa traumatico quando la nostra mente non è in grado di elaborarlo: si vive un’esperienza percepita come terribile, sconvolgente, incontrollabile, alla quale non si può dare alcuna risposta. Nella mente e nel corpo della persona si formano così “sacche” di materiale inelaborato e non esplorato. Un’esperienza muta, ma reale, che fa restare senza parole, senza risposte.
Il tipo di evento stressante, le variabili della vittima (età, autostima, caratteristiche di personalità), nonché la risposta soggettiva all’evento e il tipo di supporto sociale ricevuto, sono variabili importanti che influiscono sull’entità del danno provocato dall’esperienza traumatica. L’impatto è più devastante quando il trauma dipende dall’intenzionalità negativa di altri esseri umani, ancor peggio quando il carnefice è un parente stretto o una persona a cui si è affettivamente legati (come nel caso dell’incesto o della violenza domestica). In questi casi l’identità, l’immagine di sé e del proprio valore, subiscono una violenta incrinazione, e la vergogna, conseguente all’essere stati vittimizzati, è causa di un profondo senso di umiliazione e indegnità.
Il trauma attiva sempre emozioni forti, incontenibili, che la mente cerca di allontanare per proteggersi dal dolore, adottando meccanismi difensivi, come la repressione (l’evento traumatico viene allontanato e relegato in un angolo buio della memoria) e la dissociazione (l’evento viene raccontato con distacco, privato della sua componente emozionale). Si viene a creare una struttura mentale frammentaria, dove le emozioni, le esperienze e i ricordi perdono i loro collegamenti e divengono come i pezzi di un puzzle che ha perso la sua forma.
Solo un lavoro complesso, su più livelli (psichico e corporeo) può costituire un’occasione per riuscire a recuperare stati di integrazione. La possibilità di condividere il ricordo e la sofferenza ad esso connessa, permette alla persona di incominciare a costruire il puzzle, avvicinando i ricordi ad emozioni rimaste congelate, magari per molti anni.
Ciò che il trauma separa (mente e corpo, ricordo e emozione), le terapia deve cercare di ricongiungere.
Il mito racconta di narciso, giovane di bellissimo aspetto, che, specchiandosi in una fonte, si innamora perdutamente della sua immagine, tanto da morire di dolore nel momento in cui si accorge di non poterla possedere.
Ma cosa c’è dietro tanta vanità? Forse è meglio non fermarsi al giudizio e cercare di comprendere cosa si nasconde dentro le pieghe di tanta ammirazione di Sé.
Nella nostra società i narcisisti vengono spesso considerati persone vincenti: sono alla moda, frequentano i posti giusti, si vestono come si conviene. Spesso sono considerati presuntuosi e supponenti, persone che “se la tirano” perché dotate di un’autostima eccessiva. In realtà la valorizzazione eccessiva di sé è solo esterna e maschera una profonda insicurezza.
Il narcisismo è infatti un disturbo della personalità che comporta un eccessivo investimento sulla propria immagine, che deriva da una grande ferita infantile a scapito dell’identità vera.
L’individui grandioso, viene ammirato ovunque, e ha bisogno di questa ammirazione, non potrebbe vivere senza. E’ lui stesso ad ammirarsi per i propri successi, la propria bellezza, intelligenza e genialità. Ma se qualcosa di tutto ci viene a mancare, allora è la catastrofe, ed egli finirà in preda di una grave depressione: l’altra faccia della medaglia della grandiosità.
Si è liberi dalla depressione quando l’autostima si radica nell’autenticità dei proprio sentimenti e non nel possesso di determinate qualità. Giorno dopo giorno il narcisista si convince di poter essere ciò che appare e ciò che possiede, confondendo essenza ed immagine. Nel narcisista, contrariamente a quel che si pensa, non vi è amor di sé, ma c’è il culto dell’immagine di sé.
Heinz Kohut, lo psicanalista che dedicò la sua vita a studiare il narcisismo e a curare le ferite di chi ne soffriva, sottolineò come l’essere valorizzati e ritenuti speciali sia uno dei bisogni prioritari del bambino. Secondo l’autore da bambini questi individui si sono sentiti non corrisposti emotivamente, non valorizzati e hanno tentato di vincere la solitudine e la depressione attraverso fantasie eroiche e grandiose. Se il riconoscimento da parte del genitore fallisce, il bambino rimane con una ferita aperta e con un profondo bisogno di sentirsi unico e speciale. Passerà quindi la vita a dimostrare a se stesso e al monto che lui è veramente speciale, con un dispendio di energia enorme e sfibrante. Non avendo potuto godere a suo tempo di quello sguardo autentico e vitale che potesse garantire il suo valore e il suo senso di esistenza, il narcisista, continuerà a cercarlo tutta la vita negli occhi degli altri, condannandosi a piacere agli altri e abbracciando valori che sono quelli socialmente premiati. Non può minimamente mettere in discussione la propria immagine poiché, nel caso, aprirebbero il vaso di Pandora che spalancherebbe le porte su quello che percepiscono come un orribile abisso.
All’interno delle relazioni il narcisista è incapace di curarsi degli altri in senso affettivo, poiché questi vengono visti unicamente come specchi necessari a sostenere la loro immagine grandiosa. Il narcisista è prima di tutto una persona sola, che non può istaurare rapporti autentici perché non conosce i suoi veri sentimenti. E’ in pratica un soggetto che deve “usare” gli altri, sedurli e manipolarli, nel tentativo di asservirli ai suoi bisogni personali. In pratica gli altri non vengono effettivamente considerati, così come un tempo qualcuno non ha considerato lui come persona preziosa e da amare.
Queste persona hanno bisogno di sentirsi comprese ed accettate per quello che sono, esattamente quello che non è accaduto loro da bambini. Il narcisista da piccolo non è stato capito e rispettato nei propri sentimenti, e per guarire deve incontrare qualcuno che sappia comprenderlo e accettarlo per quello che realmente è, che lo accolga nella sua interezza.
Dai legami che sperimentiamo nella nostra famiglia di origine, ai primi scambi sociali con i coetanei e gli insegnanti, fino alle intense amicizie adolescenziali e ai legami affettivi tra uomo e donna, la nostra vita è profondamente segnata dalle relazioni che abbiamo e dalla loro qualità.
Relazionarsi con gli altri e condividere: niente al mondo ci appare più importante, più indispensabile per la nostra esistenza. Senza gli altri che nutrono la nostra vita siamo poveri, infelici, sterili. Come un palloncino senz’aria, ci sgonfiamo e perdiamo la nostra energia vitale.
Sebbene siano la fonte della nostra vitalità, tutti noi ci troviamo a dover fare i conti anche con le fatiche delle relazioni presenti e passate: le ferite dei nostri primi legami parentali, le sofferenze delle relazioni attuali con partner, figli, amici, colleghi. La maternità è un esempio illuminante di quanto gioia e fatica siano compresenti all’interno dei rapporti. In un epoca caratterizzata da legami fragili, instabili e mutevoli, una sfida importante risiede nell’imparare a trovare un punto di equilibrio tra dare e ricevere, tra spendersi e proteggersi, tra chiedere ed aspettare, dando senso anche alle fatiche insite in ogni relazione.
Imparare a riconoscere le relazioni che ci fanno crescere, che sono “buone per noi” e saper prendere le distanza da quelle che fanno male, sono passaggi necessari alla nostra crescita psicologica.
Le relazioni sane sono caratterizzate più dalla cooperazione che dalla competizione, dal desiderio di far prevalere il bene per la relazione più che l’interesse dei singoli. Le relazioni sane sono fonte di vitalità, sono ciò che rende bella la vita, apportando nutrimento e calore. Esse uniscono vicinanza, rispetto e la possibilità di stare insieme con naturalezza, navigando tra difetti e virtù. Le relazioni ferite, invece, sono mortifere e rappresentano intoppi alla crescita perché non permettono il pieno soddisfacimento dei bisogni fondamentali propri di ciascun individuo: affetto, stima, autenticità, autonomia.
Acquisire consapevolezza di ciò che abbiamo ricevuto dai nostri affetti, ma anche di ciò che ci è mancato, possedere chiarezza rispetto a ciò che desideriamo e ai nostri reali bisogni, ma anche, avere il coraggio di mettersi in gioco nella nostra interezza, costituiscono i presupposti per creare e mantenere relazioni ricche ed appaganti.
Il bisogno di affetto profondo e senza condizioni, rappresenta la nostra benzina. Molti comportamenti disfunzionali (dall’insicurezza al narcisismo, dalla compiacenza al narcisismo) e altrettanti sintomi psicologici (ansia cronica, fobie, attacchi di panico, depressione), hanno alla base un insoddisfatto bisogno di essere amati fino in fondo, senza “ma” e senza “se”.
Il bambino ha due necessità prevalenti: essere protetto nella sua debolezza ed essere accettato nella sua unicità. Un genitore troppo rigido e punitivo, ma anche ansioso e iperprotettivo, pone il bambino nella condizione di non potersi espandere, di non potersi canalizzare in modo autentico, per quelli che sono i suoi veri bisogni e le sue attitudini. L’accettazione, inoltre, non deve essere formale, ovvero un’espressione dei bisogni narcisistici dei genitori, ma un vero e autentico riconoscimento del bambino, anche nei suoi aspetti meno positivi. Se il bambino non è aiutato nei suoi sforzi ad individuarsi, a divenire cioè quel realmente è, si troverà costretto a sacrificare una fetta più o meno ampia della propria spontaneità vitale, aderendo alle richieste dei genitori, per evitare il rifiuto e il ritiro dell’affetto.
“Mamma e papà, mi avete voluto bene? Ma a quali condizioni?”. Per molti, la ricerca di una risposta a tale interrogativo, rappresenta uno stimolo (non sempre consapevole) ad iniziare un percorsa di riflessione su di sé, come la psicoterapia.
Il desiderio di trovare un’accoglienza profonda di quel che siamo ci accompagna per tutta la vita, o per gran parte di essa. Cerchiamo qualcuno che ci apprezzi per quello che siamo, con i nostri difetti e le nostre virtù, con le nostre risorse e i nostri limiti, che sappia accogliere la nostra gioia, ma anche la nostra rabbia, la nostra tristezza, le nostre lacrime, senza spaventarsi, senza rimanere deluso di noi. Qualcuno che sappia guardarci con stupore e contemplazione, come si guarda un tramonto.
Scrive Carl Rogers: “Le persone sono altrettanto meravigliose come i tramonti, se io le lascio essere ciò che sono”.
Non sempre tutti i genitori sono così accettanti e capaci di amare e valorizzare i figli. Anche loro hanno la loro storia, anche loro conservano il peso delle loro ferite. Ma se il ruolo dei genitori è prioritario sulla nostra crescita, esso non è esclusivo. Spesso nel corso della vita abbiamo la fortuna di istaurare altri legami significativi, potenti, che danno quel che madre e padre non hanno saputo o potuto dare, contribuendo a dare nutrimento a quella fame di amore che da sempre segna la storia dell’umanità.
All’interno della famiglia ogni membro è doverosamente attore protagonista e, per la sua costruzione, è fondamentale fornire “una base sicura”da cui partire, in modo da garantire a tutti i suoi membri accettazione incondizionata, fiducia, affetto, accoglienza, appoggio e sostegno nei momenti di fatica e di dolore.
Risulta importante anche legittimare il diritto alla propria autonomia, indipendenza e privacy.
Nella sua costruzione risulta saliente anche l’essere autentici: ognuno si presenta per quello che è realmente, con pregi e difetti, senza doversi deformare o senza sentire di compiacere l’altro per essere amato.
Altrettanto necessario è il definire e rispettare delle regole: cooperando, si dovrebbe cercare di costruirle insieme in modo che siano semplici e chiare, che si possono mantenere nel tempo e che tutelino una convivenza pacifica.
Per raggiungere questi obiettivi, è importante utilizzare il dialogo: mettendosi in gioco fino in fondo, ci si confronta in maniera vera e profonda, senza evitare argomenti imbarazzanti, impegnativi o faticosi, favorendo così un incontro autentico.
Anche nei momenti di conflitto, il dialogo risulta essere determinante: tensioni, divergenze ed incomprensioni in qualsiasi relazione.
Ciò che risulta essere saliente è il confronto, partendo da noi, svelando i reali bisogni o le vere emozioni, evitando giudizi o modalità manipolatorie, in modo da crescere e stare bene insieme. All’interno della famiglia ogni membro è doverosamente attore protagonista e, per la sua costruzione, è fondamentale fornire “una base sicura”da cui partire, in modo da garantire a tutti i suoi membri accettazione incondizionata, fiducia, affetto, accoglienza, appoggio e sostegno nei momenti di fatica e di dolore.
Risulta importante anche legittimare il diritto alla propria autonomia, indipendenza e privacy.
Nella sua costruzione risulta saliente anche l’essere autentici: ognuno si presenta per quello che è realmente, con pregi e difetti, senza doversi deformare o senza sentire di compiacere l’altro per essere amato.
Altrettanto necessario è il definire e rispettare delle regole: cooperando, si dovrebbe cercare di costruirle insieme in modo che siano semplici e chiare, che si possono mantenere nel tempo e che tutelino una convivenza pacifica.
Per raggiungere questi obiettivi, è importante utilizzare il dialogo: mettendosi in gioco fino in fondo, ci si confronta in maniera vera e profonda, senza evitare argomenti imbarazzanti, impegnativi o faticosi, favorendo così un incontro autentico.
Anche nei momenti di conflitto, il dialogo risulta essere determinante: tensioni, divergenze ed incomprensioni in qualsiasi relazione.
Ciò che risulta essere saliente è il confronto, partendo da noi, svelando i reali bisogni o le vere emozioni, evitando giudizi o modalità manipolatorie, in modo da crescere e stare bene insieme.
Ancora una volta il dialogo risulta essere lo strumento privilegiato anche nell’educazione dei bambini.
Di fronte a qualsiasi evento della vita, bello o brutto, triste o angosciante che sia, è necessario coinvolgere i bambini, spiegando quello che sta succedendo, in modo da garantire le informazioni sufficienti alla sua comprensione.
Molti genitori, invece, ritengono prioritario il dover tutelare il figlio di fronte alle situazioni angoscianti e tristi, decidendo di tenerlo all’oscuro dell’evento.
In realtà il bambino, già in tenera età, è in grado di percepire il clima emozionale circostante e, di conseguenza, di volerlo comprendere.
Se le informazioni risultano essere scarse o false, il bambino si crea autonomamente delle spiegazioni, che molto spesso risultano essere più traumatiche che nella realtà.
E’ importante, dunque, riuscire a comunicare con loro, scegliendo le parole giuste, tarando le informazione in base al suo livello di sviluppo, dei suoi bisogni, nonché evitando di contagiarlo con il proprio stato emotivo.
Per fare ciò risulta essere efficace scegliere un momento in cui il bambino sia disponibile al dialogo, in un luogo sicuro e tranquillo.
Il linguaggio deve essere semplice, chiaro, diretto ed autentico in modo da non confondere il bambino.
E’ essenziale accogliere lo stato d’animo del minore: la relazione deve essere rassicurante e deve avere con sé un potere calmante.
Il genitore deve ricordarsi che non è possibile proteggere sempre il proprio figlio da ciò che lo circonda.
Le prove della vita, i traumi, la sofferenza, la frustrazione e la morte fanno parte della vita stessa ed è fondamentale che il genitore aiuti il proprio figlio ad affrontarli, attraverso il suo sostegno e la sua vicinanza.
Attualmente la società richiede al genitore di essere un “contenitore consapevole e responsabile” nei confronti dei figli.
Contenitore, perché dovrebbe essere in grado di accogliere e sostenere le emozioni di qualsiasi natura dei figli, in maniera consapevole e senza esimersi dalle proprie responsabilità educative.
Affinché il proprio figlio possa inserirsi in maniera adeguata nel mondo sociale circostante, adattandosi e adeguandosi alle norme che regolano le interazioni tra le persone, è necessario infatti che i genitori siano in grado di dare delle regole sicure, ferme e decise.
Infatti educare non può prescindere dal dare delle indicazioni e dei divieti, nonché delle sanzioni nel caso in cui questi non vengano rispettati.
I genitori, nel fare ciò, non dovrebbero assumere un atteggiamento di superiorità, di arroganza o di prepotenza ed umiliazione, ma dovrebbero esprimere autorevolezza, fermezza e sicurezza.
Bisogna ricordare che un adulto autorevole, capace di coniugare decisione e sostegno, non spaventa l’altro, anzi favorisce la chiarezza interiore e guida l’altro in modo stabile e sicuro.
I genitori non dovrebbero temere di porre dei limiti per la paura di entrare in conflitto con i figli o di essere da loro rifiutati.
Dovrebbero essere in grado di assumersi le proprie responsabilità, per aiutarlo a non cadere in balia di una irrealistica onnipotenza o di un’opprimente impotenza, lasciandolo solo di fronte al difficile compito della crescita.
Assolvere il compito genitoriale è tutt’altro che facile e semplice e se ne riconosce la fatica, la difficoltà e l’indecisione sulla migliore strada da percorrere per poter stare al fianco dell’altro in maniera costruttiva e tutelante.
Per comunicazione si intende lo scambio di informazioni tra 2 o più persone, i cui contenuti possono assumere intensità emotive differenti.
La sua funzione principale consiste nel permettere all’uomo di adattarsi al mondo e viverci.
La comunicazione diventa dialogo nel momento in cui gli interlocutori manifestano motivazione ed intenzione a parlarsi, ascoltarsi e capirsi, nonché condividere qualcosa.
Il dialogo risulta efficace sulla base della correttezza del feedback tra gli interagenti, ossia sulla capacità di cogliere le parole dette e i significati celati, i vissuti e le emozioni provate dagli interlocutori.
E’ necessario ricordare l’importanza non solo della parte verbale della comunicazione, ma anche di quella non verbale: la prima riguarda le parole e il contenuto del messaggio trasmesso; la seconda alla parte relazionale di questo.
Dunque per dialogo si intende una comunicazione autentica, vera e profonda.
Per fare ciò bisognerebbe avere una conoscenza di sé, delle proprie ferite e delle proprie emozioni dettagliata e precisa in modo da evitare ambiguità e fraintendimenti.
Si impara a dialogare gradualmente e faticosamente attraverso la riflessione e la legittimazione del proprio tempo, imparando anche a tollerare e accettare con fiducia i limiti propri e dell’altro.
Il lottare per una passione, nutre anima, mente e cuore
In questa società, definita “liquida” dal sociologo polacco Baumann, tendono a prevalere, soprattutto tra i giovani, un malessere diffuso composto da noia, da un senso di resa e pessimismo, da sfiducia e da nichilismo.
Si è sopraffatti dal materialismo e dal consumismo sfrenato e le persone sono spinte verso modalità opportunistiche e narcisistiche, prive di interessi e passioni, con poche relazioni e poco tempo da dedicare a se stessi.
E’ bene ricordare, invece, che le persone hanno un proprio potere personale e possono scegliere se e come stare nel mondo che li circonda.
Si può decidere di vivere in maniera attiva la vita, riuscendo a gestire spazi e tempi, ridimensionando le aspettative, rivalutando le priorità per ritrovare un equilibrio più soddisfacente, per crescere, per evolvere, per aprire nuove strade, accettando i propri e i limiti altrui.
Fonte di vitalità è l’avere passioni, interessi, valori ed ideali in modo da vivere la vita intensamente, dando significato a tutto quello che si fa, si vive o si percepisce.
Per molti è la paura di fare il salto nel vuoto, di rischiare, di provare un dolore intollerabile nella separazione delle cose vecchie, a portarli a “rinunciare a vivere”.
Bisogna imparare ad accettare la propria parte fragile, insicura, timorosa verso le novità, resistente al cambiamento e legata alle certezze, che però fanno soffrire, per riappropriarsi della propria libertà e della propria vitalità.
Coltivare la motivazione e la fiducia aiuta a cambiare.
Ciò che è importante è imparare a lottare per le proprie passioni, senza evitare ogni occasione di frustrazione.
E’ doloroso contattare i propri limiti, ma questo ci permette di sentirci veri e di conoscerci autenticamente.
Per raggiungere stabilità e benessere è necessario,inoltre, fissarsi anche delle mete: non mete impossibili e irrealizzabili, altrimenti ciò potrebbe farci del male, portandoci a sentire la propria incapacità e il senso di fallimento.
Importante è fare un passo dopo l’altro, con impegno e dedizione, adottando buone strategie, che permettono di tollerare la fatica, senza arrendersi al primo ostacolo, con coraggio e tenacia.
Significativo è anche saper accettare l’insuccesso, senza lasciarsi devastare o distruggere, ma anche imparare ad aspettare, dandosi del tempo, preparandosi a cogliere l’occasione propizia, senza accontentarsi, ma accettando le sfide che la vita ci pone, considerandole stimolanti.
“Ascoltarsi e dare credito ai segnali presenti in noi e attorno a noi, ci aiuta a trovare il punto di equilibrio tra desiderio e limite tra accanimento e speranza” Maura Anfossi
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